La scorsa estate ho letto due libri: “Invisibile” dello scrittore spagnolo Eloy Moreno e “Invisibili” della scrittrice e femminista britannica Caroline Criado Perez.
Una domanda comune durante i corsi sul data journalism è: “Come posso trovare una notizia (degna di questo nome, ndr) nei dati?”.
Questa è – onestamente – una signora domanda alla quale si può rispondere ragionevolmente considerando almeno un paio di aspetti. Il primo riguarda il metodo: leggere i dati, contestualizzarli, non accontentarsi di un solo database o di usare solo dati che provengono dalla stessa fonte.
Quest’ultima parte – cercare più dati e possibilmente da fonti diverse – può fare la differenza e può portarci, facendo le domande giuste, a qualcosa che merita davvero di essere pubblicato.
I dati mancanti
Come ha detto qualche giorno fa Elisabetta Tola, giornalista scientifica e formatrice in un panel dedicato al data journalism nella copertura della pandemia di Covid-19, “le informazioni più interessanti possono venire dai dati che non abbiamo” (vedi circa 1:08′). Cosa significa? Sicuramente è stato ed è importante avere numeri chiari su quante persone sono malate, quante guariscono, quanti vaccini sono stati iniettati, quanti test stiamo facendo.
Ma è compito specifico del data journalist cercare proprio i numeri che mancano, facendo domande, bussando alle porte di diverse potenziali fonti.
Vediamo due esempi, entrambi “made in Italy”, che danno un’idea concreta dell’approccio.
Chiedi all’anagrafe
Tra marzo e aprile 2020, Isaia Invernizzi, all’epoca giornalista all’‘Eco di Bergamo, quotidiano locale di una delle province più colpite durante la prima ondata, ha svolto un lavoro fondamentale partendo dal fatto che non era chiaro, nonostante le informazioni fornite nei bollettini quotidiani della Protezione Civile, quante fossero le vittime in quel territorio.
Il giornale, insieme a Intwig, società attiva nel campo della data intelligence, ha lanciato una raccolta dati chiedendo a 243 comuni di condividere le informazioni provenienti dalle anagrafi sulle persone decedute in questi due mesi.
Le risposte sono arrivate da 91 amministrazioni e hanno evidenziato che negli stessi mesi del 2019 il numero medio di morti era stato di circa 1.700. Un anno dopo erano 7.700. In pratica, il numero dei deceduti era aumentato di 6.000 persone. Ufficialmente solo 3.000 all’epoca erano state certificate come vittime del coronavirus.
La conferma dell’Istat
A metà aprile 2020, un rapporto dell’Istat ha confermato quanto aveva riscontrato L’Eco di Bergamo: dal 1° marzo al 4 aprile 2020, in provincia di Bergamo il tasso di mortalità era aumentato del 537% rispetto al 2019. Il tasso nazionale, invece, registrava un incremento del 102% nello stesso periodo.
Al momento non sappiamo ancora quante di queste persone siano decedute a causa del coronavirus, ma l’idea di cercare questi numeri, in un momento in cui l’attenzione era tutta – comprensibilmente, ma anche limitatamente – concentrata sui dati giornalieri sui test, pazienti e così via, ha messo in luce informazioni preziose – e altrimenti mancanti – sull’impatto del Covid-19.
Pazienti dimenticati
Il secondo esempio è stato pubblicato pochi giorni fa ed è un’inchiesta data driven, Pazienti dimenticati, del giornalista Riccardo Saporiti, su cosa è successo a quei pazienti che avrebbero avuto bisogno di accertamenti o cure sanitarie per malattie diverse dal Covid-19, ma non hanno potuto o voluto riceverle per paura del contagio durante il primo lockdown.
La premessa è che il ministro della Salute aveva stabilito il 16 marzo 2020 il rinvio dei ricoveri e delle prestazioni ambulatoriali in tutto il Paese, secondo determinati parametri. Era una norma di emergenza, che però non teneva conto della diversa incidenza della pandemia nelle diverse aree del Paese.
Dati, risposte, conseguenze
Così, solo dopo alcuni mesi, abbiamo iniziato a chiederci cosa stesse accadendo ai pazienti non-Covid. Ci è voluto molto tempo e 200 FOIA ai servizi sanitari locali e agli ospedali per ottenere alcune, interessanti, risposte. I dati dimostrano, come scrive Saporiti, che “due interventi chirurgici su tre sono stati rinviati, idem per più di un esame o visita ambulatoriale su tre, mentre solo uno screening oncologico su dieci è stato effettuato durante il primo lockdown”. Per ora, come il lavoro sottolinea più volte, non sappiamo ancora quali saranno le conseguenze di questa decisione.
Anche in questo caso è evidente come sulla spinta di una domanda che, per un certo periodo di tempo almeno, è rimasta senza risposta, adesso abbiamo la possibilità di vedere con sufficiente dettaglio un pezzo di realtà importante in termini di conoscenza dello stato di salute individuale, riguardo alle decisioni pubbliche sul tema e alle loro conseguenze.