La scorsa estate ho letto due libri: “Invisibile” dello scrittore spagnolo Eloy Moreno e “Invisibili” della scrittrice e femminista britannica Caroline Criado Perez.
La scorsa estate ho letto due libri: “Invisibile” dello scrittore spagnolo Eloy Moreno e “Invisibili“ della scrittrice e femminista britannica Caroline Criado Perez.
Apparentemente due libri molto diversi, ma riflettendoci penso che abbiamo alcuni aspetti in comune: entrambi, infatti, parlano dei problemi che derivano dall’essere invisibili.
Il primo, “Invisibile“, è un romanzo che racconta la storia di un ragazzo, vittima di bullismo. Il ragazzo, che è la voce narrante, ha un superpotere: quando serve, può diventare invisibile. In realtà, la faccenda non è così semplice e quando si arriva all’ultima pagina del libro – che è rivolto ai ragazzi, ma anche agli adulti (non importa se di mestiere non siete insegnanti) – si capisce meglio – e non senza che faccia male – come può l’invisibilità essere un problema.
“Invisibili“, invece, è il tipo di libro che, più canonicamente, ci si può aspettare che un/a data journalist legga. In questo caso, l’effetto che ha avuto su di me è stato sorprendente così come le righe finali del libro di Moreno. Il motivo è che le ricerche di Criado Perez mostrano quanti errori, negligenze e distorsioni influenzano la raccolta dei dati relativi alle donne.
Semplicemente, se statistici, ricercatori e responsabili politici danno per scontato che il maschile sia universale – come fanno, nella maggior parte dei casi – finisce che i dati raccolti dipingono un quadro in cui quasi tutti gli aspetti relativi alla vita delle donne sono falsati, se non del tutto assenti.
Purtroppo, questo accade praticamente in tutti i Paesi del mondo – no, non ci sono, a quanto pare, Paesi più evoluti che sfuggono a questa distorsione, se non in modo parziale e limitato – e le politiche e le decisioni si basano su dati che non descrivono in modo oggettivo il lavoro e la routine familiare che le donne gestiscono ogni giorno, il modo in cui utilizzano i trasporti o altri servizi pubblici e l’impatto di eventi e fenomeni che possono influire sulla loro salute.
Per questo, pensando all’idea dell’invisibilità e a come ciò che non vediamo o che scegliamo di non vedere sia comunque influente nella nostra vita, mi è venuta in mente un’idea, a cui da qualche tempo a questa parte, tengo molto. Come nei due libri citati, è un aspetto che spesso è abbastanza trascurato, se non invisibile a molti – ma che è anche il payoff di questo sito – e consiste nel fatto che in ogni tecnologia che usiamo c’è sempre un lato umano.
Che cosa intendo esattamente? Ecco tre spunti per iniziare a capire intanto che questo lato umano esiste, e poi che scoprirlo, frequentarlo, indagarlo può rendere il nostro rapporto con le tecnologie più efficace e piacevole:
- c’è sempre una logica umana dietro un dispositivo o un software che stiamo usando: a volte, lo riconosco, non è facile capire la logica di alcuni sviluppatori, ma comunque c’è. 😉 In quanto essere umani, in ogni caso, siamo sempre potenzialmente in grado di capirlo.
- Noto spesso che quando ci avviciniamo a un nuovo strumento ci preoccupiamo troppo di come funziona, di cosa fa questo e quel pulsante, ma non capiamo – o, talvolta, nemmeno ci chiediamo – perché quello strumento potrebbe essere quello giusto per noi.
- Ogni tanto vedo anche una certa dose di “nerdismo” tra coloro che lavorano con strumenti digitali o li usano per produrre contenuti nel giornalismo e nella comunicazione. È una sensazione che conosco bene: nasce, in buona parte, dalla fiducia e dalla soddisfazione nell’applicare un metodo e nell’usare strumenti che rendono il risultato dell’applicazione di quel metodo un risultato “wow!”. Può avere, però, come effetto collaterale il rischio di finire per guardare dall’alto in basso chiunque non mostri lo stesso entusiasmo o, semplicemente, non capisca il nostro. Ma è una sensazione che rischia di essere molto controproducente, se il nostro obiettivo è contribuire a costruire una cultura digitale condivisa, accessibile e inclusiva. Chi ha “paura” del digitale, chi lo usa ma con insofferenza, chi è disorientato o annoiato, non si convincerà ad avvicinarsi con un approccio un po’ più “sciolto” e con meno pregiudizi, se avverte troppo il rischio di essere dileggiato, censurato o anche solo di sentirsi inferiore mentre sta imparando (momento in cui, per la cronaca, lo siamo tutti e ne abbiamo pieno diritto).
Per concludere, torno adesso al primo punto di questa lista per darvi un suggerimento che potrebbe magari tornarvi utile se siete tra coloro che con la tecnologia “non è proprio amore a prima vista”.
La prossima volta, prima di utilizzare un nuovo strumento / dispositivo / software / hardware, provate a farvi queste due domande:
-
Cosa può fare questo strumento?
-
Cosa ho bisogno che lo strumento faccia?
Queste infatti sono le due logiche che dobbiamo avere chiare prima di avvicinarci a un nuovo software per fare qualcosa: controllare se tra le due logiche c’è la giusta corrispondenza è un’applicazione pratica del lato umano delle tecnologie.